Una raccolta poetica di Giulia Aloia e Angelo Minerva, all’unisono con il grido di salvezza del mondo.
La poesia sopravvive da sola, ai margini della via, non si rivolge a nessuno. Eppure è sempre accogliente la poesia. Cosa ci riserva la vita, si chiede il poeta, cosa riserva l’uomo a questa vita, si chiede ancora nel perpetuo sforzo di cercare la ragione che lo fa essere e scrivere, che gli restituisce questa vita in un filo d’erba o nell’infinito che soltanto nella vera poesia non soffoca, perché “verità è il canto franto del poeta / che addomestica il dolore”.
Questa costretta nel virgolettato è una delle due voci della silloge poetica “Doppio in-canto”, che raccoglie le liriche di Giulia Aloia e Angelo Minerva, un’opera che è uno sguardo diverso sullo stesso mondo, un’opera in comune in cui certo è diverso l’approccio liturgico della parola ma il linguaggio è quello della poesia, il linguaggio che nessuno usa ma che si serve della sensibilità, per nascere, direbbe John Keats, con la stessa naturalezza delle foglie sugli alberi.
Giulia Aloia e Angelo Minerva, insegnanti e autori di saggi di critica, poesia e narrativa, nei loro versi ricercano – inappagati e per affinità elettive – il desiderio di trascendere il mondo, un modo puro di rapportarsi alla vita, un significato autentico pronunciandosi in valori comuni, come in equilibrio tra il giorno (“incanta, se indossa il sapore di fiaba”) e la notte (“se tutt’intorno è buio / e la parola tace?”) su una sottilissima corda che lega il destino di entrambi come cittadini dell’umanità. Sono questi versi un forte antidoto alla sopravvivenza, sospiri di un mondo migliore, canti per un mondo migliore.
Anche se dopo questi contributi solo il loro di mondo non è più lo stesso, perché nei giorni dell’uomo post-moderno che “scarnificato / avanza”, della mercificazione del tempo, delle scie d’olio dei motori, non è ancora poesia questa che il canto a due voci intende dimostrare; perché se la verità è nell’amore e l’amore è illusione e le poesie sono ali di carta e “il sogno ha grandi ali d’aria e cartapesta”, ai poeti non resta che soccombere come Icaro moderni fluttuando nel passaggio dall’uomo all’amore.
Ah i sogni, la primavera della poesia, quest’auspicabile educazione a sperare che la poesia può darsi solo tessendo versi spirituali, nella contemplazione del mistero, cospargendo di senso dell’infinito colori e impressioni, metafore di cielo, di terra e di arcobaleni. Solo frazioni di eternità modellati secondo un linguaggio lieve, sempre al di sopra della superficie ma non aulico, consapevole che i versi producono nell’anima gli stessi effetti che le parole belle con cui chiamare l’alba o il tramonto esprimono nei momenti ordinari, perché “da più parti il bello / testimonia il cielo in terra”, basta lasciarsi trascinare docilmente in un’ora rarefatta da una nostalgia di luce. Come svolazzano le falene pazze di luna.
Tra le pieghe di una scrittura rovente per il desiderio di comunicare un certo messaggio, là dove il cuore batte con la sua “muta denuncia / il ritmico variare”, e di particolare densità per la forza vitale con cui si cerca di portare alla luce i delitti dell’inumano nei sentimenti, o del troppo umano a detrimento della natura, queste poesie segnano così una presenza lontano dall’essere fuggevoli sospiri di disincanto. Eppure non sono ingombranti come gridi di protesta o ridondanti come slogan o retorici come manifesti.
Si fanno percepire con la loro imprevedibile tenerezza, con il loro doppio incanto, nell’eco a sfumare in cui si smarriscono due voci per tutte.
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