Confesso l’iniziale imbarazzo nell’approcciarmi al nuovo lavoro di Francesco Curto (“Da Francesco a Francesco” Voci dalla periferia dell’umano – Morlacchi Editore – 2017, pp 54) dopo avere letto le acute e illuminanti prefazioni/presentazioni del Prof. Sandro Francesco Allegrini, di Don Fausto Sciurpa e di Don Francesco Benussi.
Eppure, il bisogno di estrinsecare e condividere alcune considerazioni sulla recente fatica del “nostro” poeta ha avuto la meglio sulle reticenze e sul pudore e mi ha spinto a prendere la penna. In questo nuovo lavoro di Curto coesistono, in sapiente equilibrio, l’esigenza intimistica di una spiritualità non di facciata con la spinta ad alzare la voce in difesa degli ultimi, dei diseredati della terra. La “periferia dell’umano”, appunto, è un terreno nel quale il poeta acrese si è sempre mosso con agilità, vedendo in quest’ambito la possibilità di esprimere appieno il senso della sua poetica. “La mia vita – sussurrava Pablo Neruda - è fatta di tutte le vite: la vita del poeta”, il verso di Curto diventa, non infrequentemente, voce corale e insieme ricerca di una spiritualità o, se si vuole, di una religiosità intesa in senso epistemologico come delicato rapporto tra fede e coscienza. La religiosità in Curto va intesa, a mio modo di vedere, come ricerca affannosa di un senso al nostro essere nel mondo. In questa accezione va inteso, ancora, il sillogismo con l’altro Francesco, chiamato “dall’altra parte del mondo” al soglio di Pietro e in grado di parlare, al pari di alcuni poeti, un linguaggio semplice e universale, che tocca i cuori e smuove le coscienze intorpidite. Papa Francesco rievoca, in estrema sintesi, non solo nel nome il poverello d’Assisi e sembra voler richiamare la Chiesa a quella missione originaria dalla quale troppe volte ha deragliato sotto la spinta di umanità fragili e poco rispondenti, nell’immagine, al Creatore.
“Da Francesco a Francesco”, dunque, rappresenta un tramite, un ponte tra due sponde. In mezzo c’è il guado attraversato da correnti potentissime e popolato da ogni specie di predatori.
In questa esegesi c’è molto del senso della poetica di Curto: la capacità di interpretare in forma originale ed efficace i problemi che affliggono l’uomo moderno, esaltandone il travaglio interiore, mettendo contestualmente in rilievo il disagio esistenziale di fronte a una realtà che appare priva di senso, pervasa da odio, indifferenza, paura del diverso.
Se le bassezze del mondo portavano Montale verso una condizione esistenziale arida, priva di sbocchi, impoverita e prosciugata, incapace di cogliere il senso ultimo del vivere e di stabilire un rapporto armonico con la realtà esterna, in Curto la riscoperta del senso vero di una religiosità pura e originale, favorita dalla ciclopica figura di Papa Francesco, porta a considerazioni e conclusioni opposte rispetto al poeta ligure. Non “ossi di seppia” destinate ad assottigliarsi sotto il sole e l’usura delle onde, ma versi vivi e vitali in grado di raggiungere i punti più reconditi e irraggiungibili dell’animo umano. Esiste una via di scampo, sembra voler dire Curto: la poesia può attingere al sublime e divenire possente “ruggito” in grado di scuotere coscienze intorpidite. Alcune immagini attinte da realtà residuali (i vecchi, gli ultimi, i senza nome), attraverso la rievocazione di figure e affetti del passato, sembrano aprire un varco, dare all’uomo una possibilità.
In questa raccolta di poesie sembra, in definitiva, riemergere una speranza, un auspicio: che l’uomo possa riaffiorare dal fondo che ha toccato attraverso il recupero di una spiritualità autentica e insieme della solidarietà (ci si salva tutti insieme). E’ a questo punto che l’elegia si trasforma in inno e la poesia nata dall’immondizia esistenziale si muta in canto spiegato e liberatorio.
Massimo Conocchia
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