Incontrare Ciriaco De Mita in una serata calabrese di fine estate è un'esperienza quasi unica, "mistica" potremmo dire. E' un sorta di apparizione, di visione della prima Repubblica. «Vede, io sono un uomo del popolo, sono figlio di un sarto. E un sarto sa che i difetti delle persone non si possono aggiustare, certo, ma si possono smussare, addolcire. Io questo ho fatto nella mia vita: ho provato a confezionare il vestito più adatto a questo Paese».
Incontrare Ciriaco De Mita in una serata calabrese di fine estate è un'esperienza quasi unica, "mistica" potremmo dire. È un sorta di apparizione, un essere gettati, a vent'anni di distanza, nel pieno della Prima Repubblica.
Quella dei Craxi, degli Andreotti, dei Forlani, dei Berlinguer. E dei De Mita, naturalmente. L'occasione l'ha data la presentazione del suo ultimo libro "La storia d'Italia non è finita" organizzato ad Acri mercoledì sera.
De Mita è stato un grande leader politico democristiano, un potente della Prima Repubblica, ed è inutile star qui a ripetere quanto i politici della vecchia generazione fossero più preparati, più colti e più seri di quella attuale.
Inutile dirlo perché oramai, per quanto vituperata e offesa, la Prima Repubblica ha acquisito un prestigio indiscusso nell'immaginario degli italiani. Per meriti suoi, certo, ma anche, forse, per demeriti degli attuali inquilini del Parlamento italiano. Certo, la Prima Repubblica è stata anche il luogo di uno scontro feroce, di lotta di potere senza esclusione di colpi. Ma l'idea del potere per il potere, a parte qualche eccezione, era rifiutata. E De Mita rintraccia l'inizio di questa deriva in una figura storica precisa: è Bettino Craxi, secondo lui, il primo vero giocatore di poker, il primo a rovesciare il paradigma secondo il quale il potere si conquista con il consenso e non viceversa. «Craxi era convinto che più potere accumulava più sarebbe aumentato il consenso. Ma questa è una degenerazione della politica». De Mita racconta che dopo anni di incomprensioni, per così dire, con Craxi aveva recuperato un rapporto addirittura amichevole. Difficile credergli del tutto: lo scontro politico tra i due ha caratterizzato tutti gli anni '80. E qui De Mita si lascia andare all'aneddotica, al racconto e al dietro le quinte di quella stagione. Ricorda della trappola con cui Craxi gli negò Palazzo Chigi quando tradì il "patto della staffetta" e della grande amicizia con Riccardo Misasi, «un grade politico, una grande intelligenza e un fenomeno a tressette: non l'ho mai battuto». Poi il ricordo di Moro: drammatico, commovente. «Solo da qualche anno riesco a parlare di Aldo Moro senza essere sopraffatto dall'emozione. Moro voleva portare i comunisti al governo ma le Br lo uccisero. I terroristi hanno sempre avuto la strana "capacità" di colpire i grandi mediatori, i riformisti veri. È successo con Moro e col mio fraterno amico Roberto Ruffilli».
Ma De Mita si scalda quando qualcuno prova a ricordargli l'atteggiamento quantomeno ambiguo di una Dc schierata tutta sulla linea della fermezza: «Moro era uno di noi, era un democristiano», dice deciso, quasi arrabbiato. E poi su Berlusconi: «Mah, me lo ricordo quando veniva a trovarmi e quando mi disse che avrebbe venduto Rete4 a Tanzi: "Non è contento? La vendo a un cattolico, a uno dei vostri". Ed io: "Guardi, se lei e Tanzi pensate che sia un buon affare fate pure, non sono ne contento né contrariato". Poi seppi che appena uscito dal mio studio si era precipitato dai comunisti a giurare che avrebbe venduto Rete4 a uno dei loro. Ma aveva bluffato con entrambi: la tivvù rimase nelle sue mani». E con i comunisti De Mita ebbe un rapporto di dialogo continuo. Con Berlinguer, certo, ma soprattutto con Pietro Ingrao: «Berlinguer era una persona serissima e preparata. Pietro era tormentato, un'anima alla ricerca, un poeta vero: «Il tuo problema gli dicevo in continuazione quando ancora ci frequentavamo è che non hai la fede». Dialogo e rispetto, certo, ma quelli erano pur sempre comunisti e lui, per quanto non clericale, era un democristiano di ferro: «Una cosa che non ho mai sopportato è questa presunta superiorità morale degli uomini del Pci». E poi erano dei senzaddio. Per questo il segretario della Dc si stupì tanto quando Raissa Gorbaciova, moglie del segretario del Pcus, in un momento di debolezza e intimità gli "confessò": «Ma cosa è mai un uomo senza spirito. De Mita rimase così sorpreso nello scoprire che anche i comunisti avevano un'anima che andò da Papa Wojtila a riferire l'accaduto: «Il Papa rimase sorpreso come me: davvero ha detto così?
Allora qualcosa può cambiare anche lì». Insomma, una serata ricca di racconti dei bei tempi andati con una fine degna del personaggio: «Bene, chi vuol sfidarmi a tressette?».
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