Spinto da una sana curiosità, ho letto alcuni dei lavori del Prof. Rizzuto, che conosco da quando ero giovane studente e che ho sempre apprezzato per la sua tenacia, il suo impegno socio-politico, il suo lavoro di docente prima e dirigente scolastico poi.
Il prof. Rizzuto è un fulgido esempio di come si possano realizzare appieno i traguardi più ambiti, basandosi solo sulle proprie capacità e su una ferrea volontà. Da sempre sprezzante verso ogni forma di servilismo e di potere, lo ricordo negli anni ’70 e ’80 per il suo impegno politico e le sue denunce, improntate sempre alla difesa dei più deboli e alla ferma condanna di ogni di sopruso.
Questo suo carattere e le sue convinzioni hanno, a mio avviso, costituito il substrato ottimale per partorire alcuni lavori davvero encomiabili.
Mi piace soffermarmi su uno di essi: “Il primario o i santi medici anargiri” – Romanzo – Edizioni Nuova Bios 2007. In quest’opera l’autore riversa tutta la sua carica ironica di scrittore notevole per disegnare un quadro a tinte fosche della realtà socio-sanitaria di una città tipo (l’immaginaria Città del sole), che potrebbe essere una qualsiasi delle nostre realtà, tutte assomigliandosi quanto a decadenza di alcuni costumi e a un certo modo di procedere.
Il prof. Rizzuto, sapientemente, dissemina nel lettore una serie di messaggi e di situazioni solo apparentemente romanzate. Le vicende raccontate risultano, a una lettura smaliziata, affatto fantasiose, anche se la natura dell’oggetto della narrazione impone, come misura di cautela, l’adozione di una condizione impersonale e al di fuori di un contesto preciso. D’altra parte, gli eventi narrati nel romanzo non hanno confini geografici ben definiti ma potrebbero adattarsi a ogni realtà della nostra penisola. Il primario rappresenta, in sintesi, la degenerazione di una professione nobile: giunto al gradino più alto della scala gerarchica (grazie, spesso, ad appoggi e legami “insani”), il medico è portato a gestire la sua opera centellinando le prestazioni in base alla capacità del singolo di assecondarne richieste e avidità. Solo in casi eccezionali – e per specifiche finalità - il primario si ricorda di ciò che dovrebbe essere il cardine del suo impegno: visitare i pazienti, ascoltarne i bisogni, fornire loro indiscriminatamente la sua opera. Il primario diventa, a sua volta, strumento di gestione di clientele, attraverso le quali “ripaga” chi, a suo tempo, ha contribuito alla sua avanzata professionale. Nonostante il ruolo che occupa, non è una figura libera ma fortemente condizionata.
Rizzuto sa – e lo dice con chiarezza - che non tutto il sistema è malato e che la sanità italiana si mantiene grazie al lavoro di una folta milizia di “soldati” che ogni giorno, con spirito di abnegazione, mettono a disposizione dell’utenza esperienza e professionalità. Questi miliziani sono, però, destinati a restare sempre tali, bistrattati, poco considerati, spesso guardati in modo torvo da chi intende la professione in maniera differente.
Ciò premesso, è innegabile che le realtà “professorali” o “baronali” sono, in Italia, dure a morire. L’autore riesce a trasmettere al lettore un senso di rabbia per un sistema di privilegi caratterizzanti la parabola discendente di una professione, che fino alla metà e oltre del secolo scorso, era ammantata di un alone di rispetto e venerazione e che oggi, per le ragioni esposte nel libro, ha perso molto del suo originario splendore. E’, d’altra parte, reale il pericolo di abbandonarsi a una visione riduttiva del problema, che rischia facilmente di generare stereotipi. Scorrendo le pagine del libro si ha un’impressione netta della dicotomia tra le virtù e la pratica quotidiana, fatta di legami insani con la politica, di associazioni segrete, poteri occulti. Da questo contrasto tra ciò che si è e ciò che si dovrebbe essere nasce un senso di disagio, che è dell’autore ma che non tarda a contagiare il lettore.
Il primario passa, nel libro, attraverso una serie di vicende altalenati. Le esperienze negative, lungi dal rappresentare uno stimolo al cambiamento, finiscono per essere dimenticate e tutto riprende secondo il solito, aberrante costume. Cambia la politica, scompaiono le ideologie e il primario finisce per adattarsi gattopardescamente alle nuove dinamiche, pur di restare sempre sul carro del vincitore.
Il romanzo passa agevolmente dalla pungente, tragica ironia della prima parte, in cui si descrive l’intera parabola professionale del primario, a una sconfinata e avvincente tenerezza nell’ultima parte, nella quale viene descritta con garbo e passione la storia di due giovani amanti clandestini. Efficace e incisivo l’epilogo finale, nel quale l’anello più debole di quella congiunzione atipica paga con il prezzo più alto le sue “colpe”, agnello sacrificale sull’altare della negazione dei diritti e dell’abusivismo.
Si potrebbe discutere a lungo sulle reali dinamiche di alcuni eventi e sul rapporto causa-effetto: se sia, cioè, il sistema (o parti di esso) a generare il meccanismo corrotto o se, invece, il cittadino fomenti, o perlomeno contribuisca a mantenere in vita, un sistema di privilegi che gli permettono il raggiungimento di alcuni obiettivi usando corsie preferenziali. Temo, però, che ci impelagheremmo in una di quelle antinomie kantiane da cui non riusciremmo a uscire con gli strumenti della “ragion pura”.
Nell’Etica Nicomachea di Aristotele si stabilisce un rapporto molto stretto tra le virtù e la realtà dell’uomo. Secondo il grande filosofo greco le virtù non sono innate nell’uomo ma necessitano di un processo di formazione. Il virtuoso è colui che è abituato ad agire moralmente bene, seguendo un'abitudine. Ciò presuppone evidentemente un forte impegno formativo.
L’unica via d’uscita passa, quindi, attraverso una formazione professionale ed etica adeguata, che rimetta al primo posto i valori.
Sta qui forse la lezione più grande che proviene dal lavoro del prof. Rizzuto: la perdita di valori in un mondo sempre più disumanizzato – sembra dirci l’autore – porta a inseguire altri miti, a perdere di vista gli obiettivi primari, quelli che hanno animato ciascuno di noi all’atto di scegliere una professione non facile ma che ci attraeva per il fascino che ha sempre emanato e non per il lezzo che, in tempi più recenti, si è levato da alcuni settori di quel mondo.
Grazie Professore per questa grande lezione di stile e di vita!
Novara 30.01.2016
Massimo Conocchia
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